venerdì 31 dicembre 2010

un fiore per tè

nel lavello c'era un animale morto. m'è sembrato di vederci un cuore, attraverso quest'animale morto, forse anche degli organi, magari la cena, un pranzo non ancora del tutto digerito, l'amore per un figlio, qualcosa. il suo destino è una pizza. sono un essere vivente e mi ritrovo prima in una rete, su un bancone gelido, in un lavello asettico ed infine, tra mille odori penetranti a tal punto da risultare nauseabondi, al centro di una pizza fin troppo appetibile. e cosa sono io? cos'ero? un essere vivente. ma ora non sono più, ecco cos'è, ecco qual è la verità, la tremendamente cruda verità. sono un piatto natalizio, la leccornia del capodanno, la principale portata di ogni festa. che sono nato a fare, mi chiedo, se ora non posso vedere i miei figli crescere, se non posso sentir battere il mio cuore, se non posso vedere coi miei stessi occhi.
ma è una storia troppo lunga. 

insomma dicevo, c'era un cuore nel lavello. mi sono lavata le mani, ho salutato mamma con un bacio, ho mangiato la fetta di pizza (che non era ripiena, per intenderci), ho guardato papà dormire. mi sono messa in camera, ho acceso la musica (ancora accesa), tolto le scarpe, stropicciato gli occhi malati di un sogno fin troppo lucido. duemilaundici macellerie, ecco cos'avremo. poi avremo gente che colora la settimana enigmistica ogni settimana, ogni giorno, ogni ora, gente che non saprà fare altro; ci sarà gente che arriccerà il naso, gente che si guarderà intorno quasi come drogata; e intanto gli spari continuano.. 
si sono aperte le porte della cumana. ma tu vai, vai, resto quì ad aspettare la prossima. ennò, hai detto di no, vuoi aspettare con me; sorridi. sono le due e mezza passate e tu sei ancora quì, cerchi di allontanare il mio sguardo curioso pesantamente posato sui tuoi occhi un po' così, osservi il resto: dov'è che sei? cos'è questa tristezza? e da dove vengo io? cos'è che ci stiamo dicendo? cos'è che inconsciamente ci stiamo promettendo? 
mi convinci del convincibile e sei invincibile. come fai, non so. aspetto fino alle tre, non è un problema, mi fa piacere; che faccio, ti lascio da sola? eppoi che fai tu sola quà? non esiste.. 

"effettivamente era difficile che esistessimo in un mondo 3D, noi ancora 2D"


io sono quì, seduta a terra. queste parole molleggianti e simpatiche fuoriescono come lava fresca e benevola da qualche buco del pc, non so quale, non so nemmeno dove. eppure lo ringrazio infinitamente allo stesso modo in cui ringrazio le amicizie, gli occhi dell'amata Bucù così sinceri, le nostre risate; il viaggio con Sara, la piccolissima Sara, la dolce Sara; le amicizie che vanno, quelle che vengono; le cicatrici e il fumo. i polveroni, grazie ai quali poi s'inizia a vederci meglio.. 
la mia famiglia; Benedetta; mia nonna. 
quest'angolo di foto sconosciuta in cui ridi. ridiridiridi di una spensieratezza disarmante, consapevole del tuo straripante benessere. ridi dei racconti, ridi delle cose, di qualcuno. ridi di un cappello rosso, di questo duemiladieci che sta per andar via. ridi di noi, come me.

sabato 25 dicembre 2010

Hey girl

(...) vorrei essere un ritmo reggae, quella sensazione molleggiante e allegra; la spensieratezza concentrata in una stanza tranquilla, la casa buia. Vorrei essere una tazza da tè, questo letto, le tue parole. Una danza di foglie, un canto divertente, una filastrocca detta male, un detto popolare;
vorrei essere il mare di questo Natale ed ogni suo male.
Le tue parole, le tue parole.


Il vino, lui sì che è simpatico.


mercoledì 22 dicembre 2010

un piccolo Eden

adesso la cucina puzza di bruciato ed il pavimento è troppo freddo. sono scesa in camera e le scarpe erano sul tappeto, sporche; i biglietti sul comodino come sempre. ho scaldato il latte comprato con Agnese, l'ho scaldato troppo ed una volta salita a controllarlo si era già tuffato sui fornelli, ormai stanco. era troppo tardi ed ora è quì nella tazza, di un verde piuttosto triste odora di dolce ma è poco invitante.
la pancia fa male.
in realtà è il cuore a far male, chi voglio sfottere.

è quasi Natale (non mi dire!).  
i piedi si muovono al di là dello schermo, sono simpatici. credo.
fortunatamente questo latte sa ancora un po' di menta, il minimo almeno per sorridere dell'insofferenza di mio fratello alla vista del centro commerciale di oggi pomeriggio: finalmente qualche regalo l'ho fatto.
ho ancora quel piccolo Eden in camera mia capace di farmi star bene anche da sola: i miei libri, i miei cassetti, i miei bottoni; le storie, la tammorra, i carillon. qualche ricordo. il tempo di dimenticare, ecco, il tempo di dimenticare: quello è intrappolato nelle tende, sotto al letto, tra le ciglia. ma in fondo sorrido.
sorrido perchè conquistata da una nuova canzone ed una tazza di latte.
sorrido perchè è ventiduedicembre..  

lunedì 20 dicembre 2010

per Natale

un po' d'aria, un po' di tempo.
del tè. qualche fiore.
un suono che vada dall'oggi al futuro.
il miagolio della Francia, tante parole. 
dietro le tende un po' di sole; 

il mare.



domenica 19 dicembre 2010

Il sogno di una cosa

C'era una volta Alì - e non parlo di Alì, quel signore indiano con la barba scura, ma di un bambino -, il bambino Alì, Alì dagli occhi azzurri. Un giorno questo bambino un po' cresciuto si ritrovò in una stanza bianca, con tanti letti e qualche cravatta sul pavimento. "Sono simbolo di passaggio" mi disse "è come se avessimo fatto un viaggio". Era evidente il suo riferimento alle cravatte, disposte meticolosamente parallele e perpendicolari tra loro lungo il pavimento; il tutto mi faceva paura ma allo stesso tempo mi rassicurava. Il corpo di Alì, minuto ed esile, aveva un altro nome nella realtà, ma nella mia mentre per quella sera – che poi in sogno si tramutò in una soleggiata mattina – si chiamava così: Alì, Alì dagli occhi azzurri. Che poi, parliamoci chiaramente, i suoi occhi non erano azzurri. Piuttosto erano muschiati, di un verde che cadeva in un marrone denso, simbolo di passaggio. Cos’è che voleva da me questo Alì? Io ricordo che ridevo e non dormivo, c’erano dei letti bianchi ma non dormivo. Spesso ridevamo insieme e lui, improvvisamente, s’abbatteva in un’espressione imbronciata che mi lasciava perplessa, ma divertita.
Eravamo in questa stanza, lui continuava a spiegarmi delle cravatte col suo fare estremamente soddisfatto ed al contempo emozionato, entusiasta; mi sorrideva. Ogni tanto, sì, sorrideva. Alì..!     

giovedì 16 dicembre 2010

.

Scusi, permette una parola? Qualcuno mi disse che quì non c'era il divieto d'accesso, un tempo. Mi disse anche che non si soffriva e che nella vita l'odio era tempo bruciato. Mi disse che si doveva guardare sempre il cielo, che non si poteva essere orfani perchè si riusciva sempre a trovare qualcuno disposto ad amare..


mi basterebbe un po' di cielo.

alla fine non ha nevicato

mercoledì 15 dicembre 2010

rami di mani

e insomma ho iniziato a suonare a 9 anni per gioco, te l'ho detto, non mi ha preso. ho conosciuto il pianoforte, l'ho chiamato Bob; l'ho carezzato tutto, dall'inizio alla fine, ogni tasto era l'apice del mio desiderio ancora nascosto in un bozzo che si sarebbe schiuso poi, poco dopo insomma, ma insomma lo sai. mi guardavo le dita troppo lunghe per la mia età, le mani sfilate e ossute, e non sapevo dar loro un posto nella mia vita se non su quella scala bianca e nera, le due lune che m'avrebbero accompagnato poi prima di dormire, ogni volta. e dire che me ne vergognavo.
avevo 9 anni e premetti un tasto, non ricordo quale, un tasto, uno a caso. e fu intenso.
avevo 9 anni e guardai la mia maestra piccola quasi quanto me, tutta marrone, la vedevo completamente marrone, ed il suo cane grosso e rosso che soffiava qualcosa da sotto al tavolo; e l'altro cane, più vispo, che non si fermava mai a dormire nemmeno un po'.
avevo 9 anni quando m'accorsi che forse avrei dovuto riflettere.
avevo 9 anni quando iniziai a perdere tempo.

adesso sono quì e di anni ne ho 18. tu insomma sai di me ben poco, ma sai di me che ho iniziato a suonare a 9 anni; ho detto "piacere, Lorenza" al primo pianoforte nove anni fa ed è tanto, è proprio tanto.
adesso sono quì che ho detto ciao a Bob, il mio amato, che fino all'ultimo ha sperato di cantare qualcosa, una qualsiasi cosa. sognava Chopin, Bob, come me. ma mi sono fatta crescere le unghie apposta: ho bisogno di tempo.
adesso sono quì, le mani sfilate gelate dal freddo, i capelli raccolti, un maglione a righe; sono quì che mi osservo curiosa senza darmi risposte, perchè fiduciosa negli avvenimenti. sono quì, in una stanza di luce rossa, qualcuno grida in cortile, le stelle non si vedono.

e le mie mani sembrano di legno, non si muovono.

lunedì 13 dicembre 2010

ci faremo un tè alla mela, io e tè

la tua amata

a prima mattina fai lo squillo alla tua amata. cosa c'è?, ti chiede. niente, volevo sentire la tua voce.
a prima mattina il cane è sul divano, ti guarda perplesso; tu in mutande gli sorridi dallo stipite della porta, col cellulare in mano. l'amata è dall'altro lato del mare, aspetta.
a prima mattina il sole è già sveglio, tu stai sbadigliando. hai messo anche i calzini, ti sei lavato, hai fissato per un po' il pavimento, poi ti sei seduto a fare colazione. il latte tiepido, mamma, lasciami un po' di caffè, hai detto. il cellulare sul fazzoletto, spento.
a prima mattina, dopo una nottata, la tua bocca è impastata nel delirio del forse, la agiti e con gli occhi allo specchio non sai ancora risponderti. ti lavi la faccia, bevi; la porta del bagno è chiusa. ma'?, hai gridato. ma', c'è un cellulare che squilla... 
a prima mattina, sempre a prima mattina c'è un bambino sorride in una foto al muro. ha un cappellino rosso, i capelli lisci. sorride di gusto, gli occhi lunghi schiacciati dalla contentezza lasciano intravedere l'infinita gioia del suo cuore spensierato. stai dormendo sul cuscino sbagliato, non hai tolto le scarpe, il computer è ancora acceso.
a prima mattina, appena sveglio, lasci squillare il cellulare: è la tua amata. pronto?, hai detto. pronto?, ti ha chiesto lei, un po' spazientita ma contenta, il suo respiro lasciava trasparire il riso di sole. cosa c'è?, le hai chiesto indolenzito dal sonno. niente, volevo sentire la tua voce. ci vieni oggi a scuola?, ti ha chiesto. no, le hai risposto, vado via. vado via per sempre, avresti voluto aggiungere. ma non lo hai fatto, perchè in fondo sai che tornerai. tornerai dal cane sul divano, dal sole sveglio, da tua madre che ti lascia poche gocce di caffè prima di scappare, dal bambino che ride. e dagli squilli a prima mattina alla tua amata.

la tua amata.  

giovedì 9 dicembre 2010

la neve di Parigi

è crollato il mal tempo sui miei capelli; l'inverno è arrivato nella mia pace. il mare s'è cristallizzato sotto il cielo bianco e l'opacità delle pupille è tale da non riuscire ad attraversare i pensieri. non riesco a districare questa frana, si sdrucciola sull'efficacia dei miei movimenti materiali, senza lasciar trasparire ciò che realmente sento. dormo su esiti negativi, su coperte nodose. eppure riesco a sorridere.

perchè a Parigi nevica.
questa neve inumidisce il cuore, scaldandolo nel suo gelo. gelosamente la trattengo ammè (ammè, perchè rende meglio l'idea), sperando che un giorno futuro riesca a ricambiare anche lei con la stessa gioia.

martedì 7 dicembre 2010

io e te

ho trovato in una tasca un foglietto con su scritto il tuo nome. l'ho aperto, l'ho letto: eri tu in parole, leggevo te, mi scivolavi dalle labbra parlandomi di futuri sereni. eppure oggi neanche un bacio c'ha salvati. nemmeno un saluto.

ma noi due siamo perfetti: ci distinguiamo tra le mani dei bambini come tutti i giochi difettosi. siamo assortiti bene, siamo pieni di fratture, di ammaccature, di difetti. abbiamo tatuato sulla pelle lo stemma dell'assurdo. siamo una poesia.
e c'amiamo.
non mangiamo gelati lungo un fiume, non balliamo serenate, non cantiamo canzoni d'amore e nemmeno di guerra; spesso non ci prendiamo per mano, per timidezza non ci guardiamo nemmeno negl'occhi; non riusciamo ad averci lontani, soffriamo a non stare vicini; ci parliamo a bassa voce come per dirci ogni volta un segreto: riusciamo a sperare solo in una Senna felice, insieme.

http://www.youtube.com/watch?v=HJlC4dce2tQ

in generale, non so più che dire.

lunedì 6 dicembre 2010

tchao

ho litigato con la caffettiera perchè non voleva farsi lavare e adesso sono stesa sul letto, dopo aver fatto una torta ascoltando Damian Marley per tutto il pomeriggio. Ormai non piove più, finalmente; la scuola è occupata, le giornate si accorciano e il telefono squilla dopo tanto tempo. c'è troppo silenzio.


ormai non piove più.

cos'è che dovevo dire?

solo l'amare

C'era qualcuno che diceva che l'amore era poco importante, poco rilevante per il lento trascorrere della giovinezza. Eppure c'è qualcosa nelle mie vene che mi dice il contrario: il timbro pulsante del mio cuore m'indirizza ad altro, al lato diametralmente opposto rispetto a questa teoria. Non riesco a non pensare all'amore, è come se la mia anima ne fosse ghiotta; è come se la mia anima, a prescindere da tutto, fosse consapevolmente masochista, e pertanto si facesse del male, inseguendo l'amore per crescere.
Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
io sono arrivata ad un certo punto in cui riesco a guardarti e a dare un senso a tutti questi pensieri. mi rifugio nel mio buco di speranze, aspettando fiduciosa che anche tu riesca a vedermi, e ci raggiunga.

premiére

Sebbene molti forse si aspettino da me quel comportamento tale da essere conforme alla linearità della vita, compresa quella sorta di staticità che il mondo ci propina spacciandola per novità, io sabato mattina ho voltato la faccia alla scuola. Perchè? è semplice. non riusciamo a farci capire, ed io nel mio piccolo sono avvilita di un'amarezza che non mi fa quasi dormire. mi guardo intorno e cosa vedo? niente. ci mobilitiamo organizzandoci, ci distruggiamo l'anima facendoci il sangue amaro per una manifestazione e poi? non ci danno neanche il merito. ma d'accordo, non è il merito quello che vogliamo. è solo che, a volte, basterebbe anche solo quel minimo di riconoscenza capace di alterare almeno per un po' quella smorfia antipatica che ci si è stampata sul viso. Io ho preferito camminare, sebbene piovesse; mi sono dedicata Napoli al mattino, quella che non tutti i ragazzi conoscono dato l'orario scolastico. ho attraversato la strada, ho inspirato forte l'odore poco definito dei bar, ho spulciato milioni di libri. mi sono guardata intorno chiedendomi perchè, come mai Napoli sia così abbandonata. ma poi mi sono ricreduta: da un vicolo 'scarrupato' è uscita una signora. era tutt'agghindata, piena di fronzoli e colori; al petto una croce e sul ventre un mantesino. ammetto d'averla guardata esterrefatta, sembrava uscita da un racconto popolare, e la conferma sono state le sue urla che stonandomi improvvisamente mi hanno fatto proseguire. non ho capito bene cosa stesse dicendo, eppure le sue parole mi sono sembrate così vere da scaldarmi il cuore e la speranza.
così mi sono avviata, a passo lento e senza perdermi, verso la Feltrinelli. ho vagato indisturbata, col cuore - lo ammetto - un po' scombussolato, ma ero serena: a dicembre tutto riesce ad essere più coinvolgente, il clima è di un tepore morbido ovunque. ovunque ci sono bambini, famiglie, persone anziane, ragazzi. ovunque riesci a trovare chiunque; io col mio libro mi sono seduta al bar ed ho aspettato. una telefonata, forse. o forse che la mia cioccolata si raffreddasse per tempo. o magari addirittura che arrivasse qualcuno da lontano a darmi un fiore, un bacio nei capelli.

allora sì, è vero che non sono adatta. è vero che mi coinvolgo poco nella mia stessa vita. è vero che non taglio le unghie per paura di restare disarmata. e allora, nonostante tutto, sarà vero anche che vivo per questo; che senza pianoforte non ci so stare, che ad appagarmi ci sono solo sentimenti sprezzanti, ultimamente. sarà.

Napoli comunque respira. dalle viscere del suo scontento parla come se fosse appena nata, balorda e divertente, infischiandosene, andando oltre, forse, tutti i pregiudizi; ed io la fisso contenta, come una bambina.