venerdì 27 gennaio 2012

anni tré

non è mica tanto speciale
la mia emozione
nel ricordare riordinare
il mio passato da giudicare

eri minuscola nella mia mano
che non piangevi nemmeno
sospiravi alla luce al neon
che ti era stata regalata
e soffiavi per parlarmi
in una lingua che non si studia

mi sorprendo negli occhi
con il pianto nelle mani
e qualche parola
da filtrare
ancora
in una lingua
che non si studia

venerdì 20 gennaio 2012

Ventunoecinquantaquattro - 5


Margherita in quel momento desiderava soltanto una cosa: che tutti quanti sapessero di lei e del suo darsi alle persone più di qualsiasi altra cosa, della sua passione più grande, dell'esistenza della sua gatta, del suo fare le sciarpe. Al contempo però era nauseata dall'intero mondo. Avrebbe apprezzato di gran lunga scappare su un altro pianeta, piuttosto che aggrapparsi all'idea che per sopravvivere avrebbe dovuto lavorare per altri quarant'anni. Senza nessuno al suo fianco, poi.
A parte un gatto, il che non era mica male. Solo che forse Margherita avrebbe preferito qualcuno della sua stessa specie, qualcuno di umano, con le mani e coi capelli. Senza baffi, magari. "Un po' magrolino" si diceva, e sorrideva impastando farina, acqua e lievito. Stava preparando una specie di pizza per quei pochi amici che le erano rimasti: dopo essere andata a trovare Tobia dopo così tanto tempo, chiunque era uscito dal proprio guscio di timidezza e aveva voluto sapere come stava. Margherita, raccolta l'ipocrisia, se ne fece una ragione e decise di invitarli tutti a cena. Ad una cena piccola, modesta, in una casa arredata Ikea che sembra una bambolina presa e messi lì, s'intende.
Quindi aveva preparato i pomodorini con salsa piccante e aveva messo tutto da parte, iniziando a fare l'impasto con in sottofondo Tom Waits. Un libro la chiamava dalla sedia della cucina, mangiucchiato ai bordi da Musetta che non si faceva mai i fatti suoi. La posta quel giorno non era arrivata, e la signorina ne fu felice. Si sentiva quasi sollevata, in realtà, al pensiero che qualcuno le voleva ancora bene. Eppure un piccolo magone si annidava giusto al centro del suo sterno, perforandola. Era la nausea dell'abbandono, l'incondizionata voglia di tornare indietro e lasciarsi andare a quelle piccole cose a cui aveva rinunciato per pigrizia o - molto più probabile - per timidezza. Che fine aveva fatto la sua spensieratezza?, la sua minuziosa curiosità?
Ogni qual volta pensava a quei giorni, le cadeva l'intero mondo addosso.
Perché si vedeva chiusa e senza speranze. In ritardo.

Quando suonò il campanello, l'orologio segnava le ventunoecinquantaquattro.

martedì 17 gennaio 2012

Il palazzo di Tobia - 4


La borsa sul pavimento, i fogli sparsi: a Margherita serviva solo una penna per impazzire del tutto. Aveva iniziato ad odiarli tutti, dal primo all'ultimo, e le fotografie non aiutavano. Erano in ritardo con la consegna dello stipendio, in ritardo di tre mesi. "Accumuliamo" le dicevano, "poi avrai tutti i tuoi danni". Ma la signorina non ci credeva e si vedeva persa nel suo buco di casa di Bologna arredata dall'Ikea come una bomboniera presa e messa lì; cattiva nei confronti della propria gatta che da giorni andata avanti a latte scremato, e nei suoi stessi confronti: beveva solo caffè studiando ogni singolo documento che le era rimasto da quando se n'era andata da Napoli. Sua madre aveva preferito non avvisarla; nel frattempo spulciava. "Contatore, acqua, telefono" riempiva la moka dal lavandino del bagno continuando a leggere, camminando frenetica, accigliata. E non riusciva a dirsi altro che "Rivoglio tutto indietro".
Rivoleva la sua vecchia casa con le cene natalizie e il profumo del mare, le luci dei lampioni sempre calde e anche le rapine, voleva anche le rapine. I sanpietrini con gli spiccioli incastrati, le borse sulle bancarelle, i vestiti comprati in piazza. I sabato sera discutibili, i libri rovinati di Port'Alba.
Sorseggiava avida pensando che l'unica cosa che avrebbe potuto salvarla sarebbe stata tornare a casa, abbandonare tutto e cercare altro. Oppure andare sul Montenuovo in bicicletta, mangiare qualcosa e poi buttarsi giù.

Tra le due cose, effettivamente discutibili, decise di affidarsi al tempo passato.
Sorrise tra sè per tutto quello che aveva pensato: non avrebbe mai potuto, proprio adesso, lasciare Bologna.
Si trovò così in via Zamboni trentasei, sotto il palazzo di Tobia.

lunedì 16 gennaio 2012

Latte scremato - 3


Margherita tornò a casa per pranzo. Posò la piccola borsa sul settimino tuttofare all'entrata, e si avviò verso la cucina. I documenti li aveva lasciati tra le carte dell'ufficio. "Tanto dopo ci devo tornare" pensò, e salutò la gatta senza vederla, perchè vagava ancora regina della casa. Margherita urlò il suo nome, fischiando poi per farla avvicinare. Il cappotto che sembrava di vellutino stavolta l'aveva poggiato sulla sedia della cucina insieme alla sciarpa coi pois. Sul tavolo dueperdue aveva steso una tovaglietta verde mela. La luce entrava indisturbata, tanto da commuovere. Bologna quella mattina si era svegliata come un bambino, piangendo poco sul pavimento della piazza che già si era asciugato, facendo spazio al timido sole d'inverno. Margherita rientrando aveva visto dei passerotti e qualche micio, tutti accovacciati qua e là, dispersi nel suo cammino a sonnecchiare felici. Non si era avvicinata per paura di svegliarli, aveva preferito guardarli da lontano, tornando a casa, cercando di assorbire nella sua mente tutta la loro naturale bellezza. Si commosse dentro, e per un attimo si illuse di essere una di loro.
Quando squillò il telefono stava preparando la ciotolina della gatta. Andò a rispondere che aveva le mani ancora un po' impiastricciate, unte di ciò che ultimamente le veniva a costare di più, ma che rendeva felice la sua sorella felina. La casa vibrava nel silenzio. Fuori c'era un po' di vento, ma si stava bene anche senza riscaldamenti, adesso. Le persiane erano quasi tutte abbassate; solo quella della cucina era stata aperta, così che il vocio di fuori avrebbe fatto compagnia a Musetta durante la sua assenza. Spesso aveva pensato di farla accoppiare, o addirittura di trovarle una sorella che le fosse simile, ma non aveva mai trovato il tempo neanche per portarla dal veterinario, salvo quelle prime volte necessarie.
Margherita trovò Musetta che era completamente sola, minuscola, rosea, sotto un porticato. Non piangeva, non tremava, non si lamentava neanche: appena la signorina la prese tra le dita, lei iniziò a miagolare felice. Non riusciva ancora a fare le fusa, ma dimostrò il suo affetto leccandole i palmi e annusandola tutta. Margherita se la strinse al petto, consapevole del fatto che mamma gatta, una volta tornata, non avrebbe mai più accettato un cucciolo dall'odore diverso dal suo. Ma la ragazza non poteva farci nulla: l'amava, e decise di aspettare per ore, rimandando il suo allora studio universitario. Restò lì, sotto un porticato qualsiasi in una qualsiasi sera bolognese, ad aspettare una madre che non si fece vedere mai. Fu così, in realtà, che decise di portarla con sè nella sua vita. Erano i tempi degli amori, quelli. L'amore per la letteratura, la scrittura, gli amici, i luoghi assolati, le cartoline, le foto, Tobia, i segni. E Musetta fu la benvenuta, battezzata così per il suo muso scuro rispetto al resto del corpicino completamente rosso.
Appena arrivata in quella nuova vita, la micia si diede subito un tono: dapprima maldestra, col tempo imparò a passeggiare da vera regina, pavoneggiandosi tra le gambe delle sedie o tra i fili elettrici, sempre attenta curarsi le unghie su una qualsiasi superficie delicata. E miagolava in maniera pacata, ruffiana, gatta. Tutte le persone che varcarono la soglia della porta di quella casa, non poterono non innamorarsene. Nonostante questo, però, Musetta preferì non abbandonarsi mai a delle mani che non fossero della sua padrona e salvatrice. Difatti, con lei la gatta si aprì spaventosamente, quasi ruggendo di dolore nelle notti in cui Margherita stava male, o facendo le fusa anche ai mobili durante le sere di festa.
Le piaceva la musica, l'odore dell'incenso, il latte scremato e le forme della luce del sole da rincorrere per tutta la cucina. A volte, da maldestra qual era sempre stata, inciampava ancora, provvedendo poi, immediatamente, a rimettersi in riga senza farsi vedere. Si impettiva, il muso verso l'alto, camminava fiera nei suoi sei chili di corpo e pelo. Margherita, con la cornetta all'orecchio, la guardava passeggiare nel corridoio, avanti e indietro, aspettandola. "Scusami, non è che potresti richiamarmi stasera?, adesso devo andare. Torno verso le otto e mezza", attaccò e sorrise avviandosi in cucina.     

venerdì 13 gennaio 2012

Nemmeno il destino - 2

Siamo spiacenti di comunicarle che il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La invitiamo a riprovare più tardi. Grazie_

Con il computer sulle gambe per riscaldarsi, Margherita staccava di nuovo il telefono, delusa. "Domani devo andare a lavoro domani devo andare a lavoro domani devo andare a lavoro" pensava, e non voleva crederci. Fuori c'erano più o meno dieci gradi, rientrando non c'aveva fatto molto caso perché la distanza dal portone al metrò era breve, si doveva soltanto attraversare la piazza. Ma una volta a casa, senza riscaldamenti, iniziava a sentirsi pure il vento di fuori. Domenica sera, trenici gennaio. Resoconto: diciannove euro soliti spesi per la spesa, fettuccine in frigo, scatola del caffè quasi piena. Musetta sotto il letto. Coperte pulite, finestre chiuse. Disegni sparsi.
Aveva ritrovato un paio di disegni dei tempi del liceo, di quando stava a Napoli e c'era il sole. Glieli aveva lasciati Domitilla. "Chissà che fine ha fatto" pensò soffiandosi tra le mani, le dita lunghe, "chissà.."; li aveva appesi entrambi sul muro d'ingresso, entrambi raffiguranti lei, Margherita, signorina, preziosa, totalmente diversa: sette chili in più, un po' di felicità negli occhi ancora grandi. Le piacevano gli stivali bassi, i maglioni di suo nonno, perdere il tempo. Fumare non le piaceva, per esempio: iniziò a diciotto anni, l'anno successivo a quei disegni datati millenovecentonovantanove. "Quanto tempo" disse svegliando il gatto, "più di dieci anni cazzo" e non ci pensò più.
L'appartamento era troppo vuoto. Adesso che Margherita era cresciuta, aveva lasciato qualcosa indietro poggiato da qualche parte, mentre altre cose le aveva tenute per sè come piccoli tesori da continuare a coltivare. Il mito della scrittura, per esempio. Oppure i ciclamini.
Si voltava e vedeva troppe cose in tutto quel tempo che aveva tentato di trattenere, ma che era scappato comunque. Tobia, la cenere, le carte, le parole i prati i gatti i messaggi sul cellulare, le promesse. Si rendeva conto solo ora di essere stata gelosa di tutti i suoi amici in maniera maniacale, e di averli trattati come fratelli tutti, prescindendo dal loro volerle bene. Un po' piangeva dentro, Margherita, e se ne meravigliava: Napoli le stava iniziando a mancare sul serio dopo più di cinque anni. Pagando l'affitto, con gatto e cucinino. Perfetta nel suo essersi ritrovata, finalmente: le mancava Napoli.
"Incredibile" si disse, "domani devo andare a lavoro".

giovedì 12 gennaio 2012

Due giorni fa Margherita ha parlato della sua solitudine

Sì è tolta la sciarpa coi pois alla fine, tipo tenda ma di lana, l'ha piegata e messa sulla sedia, poi ha tolto il cappotto dell'anno scorso, quello che sembra di vellutino, e l'ha messo sulla sciarpa sulla sedia, senza pensarci: gli undici gradi di fuori le hanno quasi congelato le ossa, tanto che adesso per battere i denti o anche solo per spostare i capelli dietro le orecchie si fa male. Giornata solita, sobria, non proprio vuota ma quasi. Prima l'ufficio (sei ore e mezza senza spacco), poi la panetteria, tra una corsa in macchina ed un'altra. Il tram oggi non l'ha preso, perché ieri mamma le ha dato qualche soldo in più per il Natale che incombe. "Te li conservi per Capodanno ja, non si sa mai"; sua madre non aveva mai saputo fare l'occhiolino, almeno stando a quel che riusciva a ricordare, eppure adesso gliel'aveva fatto e sembrava pure felice. Tutta la sua famiglia l'aveva vista sempre da sola, dalla fine dell'Università quando si era lasciata con un tale di cui però non avevano mai capito il nome. Era del nord, dove lei si era trasferita a studiare, ed era messo bene a soldi, così dicevano, anche se si vestiva da straccione.
Li vedevano passeggiare a braccetto il sabato mattina, o nei week-end quando scendevano a salutare, ma non si erano mai presentati a casa assieme. Lei lo giustificava, "Si vergogna", ma in realtà lui non voleva e basta. La famiglia le credeva senza insistere: che la figlia stesse bene, questo contava, che non si fosse sciupata o non avesse iniziato a fumare. Invece Margherita fumava eccome nella sua piccola casa di Bologna, dove nessuno la poteva vedere nè sgridare. E si trovava bene perché cucinava poco e comprava quello che bastava e poteva stare sveglia fino a quando voleva, tanto era sola. Solissima, nella sua casa di Bologna arredata all'Ikea, confezionata e messa lì come una bomboniera, piena di libri e un gatto. Quell'appartamento aveva visto talmente tante persone, Margherita non riusciva a pensarci, e si diceva spesso "Sì, io qui ci stono proprio". Ma poi si rassegnava, dicendosi che non faceva niente, che adesso era il suo turno e ci stava lei, e un po' si rasserenava.
Erano un paio di anni che a casa non riceveva quasi più nessuno, nemmeno il fattorino della spesa o il postino. Si faceva appendere il pane (saltuariamente) alla maniglia della porta quando non c'era, ed i pacchi che le consegnavano se li faceva lasciare fuori la porta se troppo ingombranti, altrimenti sotto lo zerbino. Musetta, il suo gatto, ormai non si lamentava nemmeno più: ogni tanto le si avvicinava per farle le fusa e tenerle compagnia; aveva imparato a non piangere più nemmeno per la fame. Margherita se n'era accorta, e non poteva esserne più triste. Ogni tanto si presentava sul suo cuscino a quadri con una pallina di feltro o una busta di carta per farla giocare, ma niente. Quindi si ritrovava da sola, in una casa muta.
Da sola aspettando il tram, da sola al lavoro, da sola davanti allo specchio mentre si lavava i denti, da sola nel letto grande. Da sola in cucina mentre si preparava da mangiare, da sola al supermercato o davanti un vestito, sola nell'armadio, sola sotto il letto, nel cuscino, nel metrò. Sola con le spalle al muro mentre faceva i piatti, sola a mettere il caffè nella moka.
Piangeva spesso, Margherita, anche per il lavoro che aveva trovato e per la Laurea in Lingue che non le era servita a niente. Le sarebbe piaciuto viaggiare o sposare il suo vero amore dell'adolescenza. Le sarebbe piaciuto creare. Ma adesso, nella tristezza della fine di un giorno, mentre le nuvole calano sui porticati, Margherita attraversa la piazza coi suoi ventisette anni, una borsa grande dove tenere i pensieri, e delle scarpe comode per non inciampare.  

lunedì 9 gennaio 2012

*

c'è una ragazza che passeggia senza mamma
arriva a piedi fino alla fine del lungomare
poi torna
e racconta
alla mamma quel che si deve fare
secondo lei
per amare

ci sono pensieri lunghi quanto
la distanza da qua alla luna
oppure la lunghezza di un paio di mani

c'è da mangiare
tutto quello che vuoi conservare
i ricordi i desideri i pensieri le parole  
tutto
la ragazza che passeggia senza mamma
mette a tavola il piatto 
e aspetta
un altro anno


a u g u r i