La borsa sul pavimento, i fogli sparsi: a Margherita serviva solo una penna per impazzire del tutto. Aveva iniziato ad odiarli tutti, dal primo all'ultimo, e le fotografie non aiutavano. Erano in ritardo con la consegna dello stipendio, in ritardo di tre mesi. "Accumuliamo" le dicevano, "poi avrai tutti i tuoi danni". Ma la signorina non ci credeva e si vedeva persa nel suo buco di casa di Bologna arredata dall'Ikea come una bomboniera presa e messa lì; cattiva nei confronti della propria gatta che da giorni andata avanti a latte scremato, e nei suoi stessi confronti: beveva solo caffè studiando ogni singolo documento che le era rimasto da quando se n'era andata da Napoli. Sua madre aveva preferito non avvisarla; nel frattempo spulciava. "Contatore, acqua, telefono" riempiva la moka dal lavandino del bagno continuando a leggere, camminando frenetica, accigliata. E non riusciva a dirsi altro che "Rivoglio tutto indietro".
Rivoleva la sua vecchia casa con le cene natalizie e il profumo del mare, le luci dei lampioni sempre calde e anche le rapine, voleva anche le rapine. I sanpietrini con gli spiccioli incastrati, le borse sulle bancarelle, i vestiti comprati in piazza. I sabato sera discutibili, i libri rovinati di Port'Alba.
Sorseggiava avida pensando che l'unica cosa che avrebbe potuto salvarla sarebbe stata tornare a casa, abbandonare tutto e cercare altro. Oppure andare sul Montenuovo in bicicletta, mangiare qualcosa e poi buttarsi giù.
Tra le due cose, effettivamente discutibili, decise di affidarsi al tempo passato.
Sorrise tra sè per tutto quello che aveva pensato: non avrebbe mai potuto, proprio adesso, lasciare Bologna.
Si trovò così in via Zamboni trentasei, sotto il palazzo di Tobia.
E' così, se non peggio.
RispondiEliminaPerò si va avanti, si deve, questo è certo.
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